18 luglio 2010

Prescritti o condannati ma sempre riveriti. I tre «senatori italiani»


Sono tre storie parallele, quelle che racconteremo oggi a grandi linee. Tre storie giudiziarie che hanno fatto notizia, scandalo e, sotto un certo profilo, persino epoca. Tre storie mal digerite dal mondo dell’informazione, soprattutto da quella televisiva, ma assolutamente indigeste al mondo della politica, intesa da molti come entità a sé stante rispetto alla società, autoreferenziale e sideralmente lontana. Racconteremo le storie di tre senatori all’italiana.

Tre senatori accomunati da un medesimo destino, dalle medesime vicissitudini giudiziarie, dalla stessa macchia. Con un unico e inquietante filo nero: la mafia e la Sicilia. Perché quelle dei tre senatori all’italiana, sono tre storie, sia detto sin da principio, figlie dello stesso modo criminogeno di intendere la politica. Come riassumerlo? Quel modo, potremmo dire, che consiste nel vendersi l’anima al diavolo pur di ottenerne voti e consenso, clientela e potere. E che per praticare una politica di siffatta lega, la mafia e la Sicilia ( quando diventano, in maniera micidiale, complementari fra loro; non accade di rado) siano l’habitat ideale, è ormai dimostrato sin dai tempi dell’Unità d’Italia.

I tre senatori all’italiana, rispondono ai nomi di Giulio Andreotti, Totò Cuffaro, Marcello Dell’Utri. Non siamo noi, animati da foga giustizialista, ad affastellarli in un unico fascio. Sono loro, con le condotte tenute, a comporre una “specie” parlamentare sui generis: quella dei senatori che, una volta condannati, hanno usato Palazzo Madama come le tartarughe usano la corazza, per nascondervi la testa. Si dice che se un principio viene violato una prima volta, si son già poste le basi perché venga violato all’infinito. Ma non furono in molti, quindici anni fa, a rendersi conto che il paradosso di Giulio Andreotti - sette volte presidente del Consiglio, ministro a ripetizione, fra gli uomini politici italiani più conosciuti e riveriti all’estero - che si ritrovò imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, avrebbe provocato onde concentriche negli anni a venire, una lacerazione permanente, un punto di non facile ritorno.

Andreotti fu accusato di essersi mosso in terra di Sicilia, a fini correntizi ed elettoralistici, in maniera disinvolta, a cavallo di quella zona grigia oltre la quale iniziano i territori del popolo di mafia. Lo accusarono quasi quaranta pentiti. Emersero, con deposizioni e fotografie inequivocabili, i suoi rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo, originari di Salemi, democristiani, uomini d’onore e a capo di quelle esattorie delle imposte che, in anni lontani, rappresentavano, nell’isola, l’industria di maggior fatturato. Fu accusato d’aver incontrato i capi mafia più in vista alla fine degli anni 70, nel disperato tentativo di mettere una buona parola a favore di Piersanti Mattarella, democristiano e presidente della Regione Siciliana, che conduceva in modo rigoroso la lotta al sistema di potere delle cosche.

E di essersi nuovamente incontrato con loro, sempre in gran segreto, per farsi spiegare come mai, nonostante il suo iniziale interessamento, quelli avessero deciso di assassinare Mattarella come un cane. E altro, molto altro ancora. Non si intende, qui, rifare quei processi. Si tratta solo di ricordare, almeno a grandi linee. In primo grado, Andreotti fu assolto per “insufficienza di prove”, mentre, in appello, il reato, dal 1980 in avanti, venne “prescritto”. Il collegio difensivo del senatore ricorse in Cassazione chiedendo la piena riabilitazione. La Cassazione rigettò l’istanza. Confermò la sentenza di secondo grado e la formula della “prescrizione”, condannando l’imputato Andreotti Giulio al pagamento delle spese processuali. Nel frattempo che il dramma si svolgeva, Alta Politica e gran parte del mondo dei media mettevano sulla graticola la Procura di Palermo, all’epoca dei fatti guidata da Gian Carlo Caselli, per aver osato portare alla sbarra «l’uomo politico che il mondo ci invidia».

Fu un decennio di veleni e bassezze, di capovolgimento dei fatti e randellate mediatiche contro chi osava ribadire che se la legge è uguale per tutti, uguale doveva esserlo anche per Giulio Andreotti. Fatto sta che il verdetto della Cassazione fu letteralmente ignorato da grande stampa e grande tv. La lieta novella, dopo la sentenza di secondo grado, aveva già fatto il giro del mondo: «Andreotti assolto». E non ci fu verso di tarpare le ali alla leggenda.

Poi, fu la volta di Totò Cuffaro, governatore di Sicilia: rapporti con i mafiosi della borgata di Brancaccio; il valzer delle cosiddette “talpe” (poliziotti, carabinieri funzionari pubblici) che riferivano notizie riservate sia a Cuffaro sia a Provenzano; incontri con Michele Aiello, ras della sanità privata in Sicilia, con il quale Cuffaro si incontrava amabilmente per decidere insieme il prezzario delle prestazioni prontamente rimborsate dall’ente pubblico. E i costi della sanità siciliana lievitarono di due tre volte rispetto al resto delle regioni italiane (quando si dice l’utilità delle intercettazioni e la favoletta berlusconiana che tutti gli italiani sono spiati). Come Andreotti, proverbiale per le sue battute, ricercato nelle terrazze e nei salotti romani (e non ci riferiamo ai salotti dell’illuminismo parigino), fatte le debite proporzioni, anche Totò Cuffaro stava simpatico ai più. Lo chiamavano tutti “vasa vasa”, sfoggiava provocatoriamente la “coppola”, offriva cannoli con freschissima ricotta ai giornalisti che ne condividevano la pena.

In primo grado, fu condannato a cinque anni per favoreggiamSono tre storie parallele, quelle che racconteremo oggi a grandi linee. Tre storie giudiziarie che hanno fatto notizia, scandalo e, sotto un certo profilo, persino epoca. Tre storie mal digerite dal mondo dell’informazione, soprattutto da quella televisiva, ma assolutamente indigeste al mondo della politica, intesa da molti come entità a sé stante rispetto alla società, autoreferenziale e sideralmente lontana. Racconteremo le storie di tre senatori all’italiana.

Tre senatori accomunati da un medesimo destino, dalle medesime vicissitudini giudiziarie, dalla stessa macchia. Con un unico e inquietante filo nero: la mafia e la Sicilia. Perché quelle dei tre senatori all’italiana, sono tre storie, sia detto sin da principio, figlie dello stesso modo criminogeno di intendere la politica. Come riassumerlo? Quel modo, potremmo dire, che consiste nel vendersi l’anima al diavolo pur di ottenerne voti e consenso, clientela e potere. E che per praticare una politica di siffatta lega, la mafia e la Sicilia ( quando diventano, in maniera micidiale, complementari fra loro; non accade di rado) siano l’habitat ideale, è ormai dimostrato sin dai tempi dell’Unità d’Italia.

I tre senatori all’italiana, rispondono ai nomi di Giulio Andreotti, Totò Cuffaro, Marcello Dell’Utri. Non siamo noi, animati da foga giustizialista, ad affastellarli in un unico fascio. Sono loro, con le condotte tenute, a comporre una “specie” parlamentare sui generis: quella dei senatori che, una volta condannati, hanno usato Palazzo Madama come le tartarughe usano la corazza, per nascondervi la testa. Si dice che se un principio viene violato una prima volta, si son già poste le basi perché venga violato all’infinito. Ma non furono in molti, quindici anni fa, a rendersi conto che il paradosso di Giulio Andreotti - sette volte presidente del Consiglio, ministro a ripetizione, fra gli uomini politici italiani più conosciuti e riveriti all’estero - che si ritrovò imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, avrebbe provocato onde concentriche negli anni a venire, una lacerazione permanente, un punto di non facile ritorno.

Andreotti fu accusato di essersi mosso in terra di Sicilia, a fini correntizi ed elettoralistici, in maniera disinvolta, a cavallo di quella zona grigia oltre la quale iniziano i territori del popolo di mafia. Lo accusarono quasi quaranta pentiti. Emersero, con deposizioni e fotografie inequivocabili, i suoi rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo, originari di Salemi, democristiani, uomini d’onore e a capo di quelle esattorie delle imposte che, in anni lontani, rappresentavano, nell’isola, l’industria di maggior fatturato. Fu accusato d’aver incontrato i capi mafia più in vista alla fine degli anni 70, nel disperato tentativo di mettere una buona parola a favore di Piersanti Mattarella, democristiano e presidente della Regione Siciliana, che conduceva in modo rigoroso la lotta al sistema di potere delle cosche.

E di essersi nuovamente incontrato con loro, sempre in gran segreto, per farsi spiegare come mai, nonostante il suo iniziale interessamento, quelli avessero deciso di assassinare Mattarella come un cane. E altro, molto altro ancora. Non si intende, qui, rifare quei processi. Si tratta solo di ricordare, almeno a grandi linee. In primo grado, Andreotti fu assolto per “insufficienza di prove”, mentre, in appello, il reato, dal 1980 in avanti, venne “prescritto”. Il collegio difensivo del senatore ricorse in Cassazione chiedendo la piena riabilitazione. La Cassazione rigettò l’istanza. Confermò la sentenza di secondo grado e la formula della “prescrizione”, condannando l’imputato Andreotti Giulio al pagamento delle spese processuali. Nel frattempo che il dramma si svolgeva, Alta Politica e gran parte del mondo dei media mettevano sulla graticola la Procura di Palermo, all’epoca dei fatti guidata da Gian Carlo Caselli, per aver osato portare alla sbarra «l’uomo politico che il mondo ci invidia».

Fu un decennio di veleni e bassezze, di capovolgimento dei fatti e randellate mediatiche contro chi osava ribadire che se la legge è uguale per tutti, uguale doveva esserlo anche per Giulio Andreotti. Fatto sta che il verdetto della Cassazione fu letteralmente ignorato da grande stampa e grande tv. La lieta novella, dopo la sentenza di secondo grado, aveva già fatto il giro del mondo: «Andreotti assolto». E non ci fu verso di tarpare le ali alla leggenda.

Poi, fu la volta di Totò Cuffaro, governatore di Sicilia: rapporti con i mafiosi della borgata di Brancaccio; il valzer delle cosiddette “talpe” (poliziotti, carabinieri funzionari pubblici) che riferivano notizie riservate sia a Cuffaro sia a Provenzano; incontri con Michele Aiello, ras della sanità privata in Sicilia, con il quale Cuffaro si incontrava amabilmente per decidere insieme il prezzario delle prestazioni prontamente rimborsate dall’ente pubblico. E i costi della sanità siciliana lievitarono di due tre volte rispetto al resto delle regioni italiane (quando si dice l’utilità delle intercettazioni e la favoletta berlusconiana che tutti gli italiani sono spiati). Come Andreotti, proverbiale per le sue battute, ricercato nelle terrazze e nei salotti romani (e non ci riferiamo ai salotti dell’illuminismo parigino), fatte le debite proporzioni, anche Totò Cuffaro stava simpatico ai più. Lo chiamavano tutti “vasa vasa”, sfoggiava provocatoriamente la “coppola”, offriva cannoli con freschissima ricotta ai giornalisti che ne condividevano la pena.

In primo grado, fu condannato a cinque anni per favoreggiamento semplice, e in appello a sette, ma questa volta per aver favorito Cosa Nostra. Anche per lui, a palazzo Madama, tanta comprensione, tanta solidarietà, tante affettuose pacche sulle spalle. Con i big del suo partito che lo definirono: «Un perseguitato politico». Ultimo, in ordine di tempo, nella lista dei tre senatori all’italiana, Marcello Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia, oggi Pdl. È storia di questi giorni. Condannato per concorso esterno alla mafia, a nove e sette anni di reclusione. Per carità di Dio: lo sappiamo benissimo che su Cuffaro e Dell’Utri la Cassazione deve ancora dire la sua. Ma, nell’immediato, il catalogo è quello che vi abbiamo appena descritto. I tre sono seduti su poltroncine di velluto rosso. E se ne stanno sereni al loro posto. Tirano le fila di quel che resta delle loro correnti. In grande o in piccolo, fanno politica. Il terzetto è ben distribuito fra commissioni senatoriali dai nomi altisonanti. A modo loro, dirigono il Paese. Se necessario, vanno in televisione, fanno dichiarazioni alla stampa. Adoperano le auto blu. In Italia, un’opportunità non si nega a nessuno. O, per dirla con un adagio che si perde nella notte dei tempi: «Cane non mangia cane».ento semplice, e in appello a sette, ma questa volta per aver favorito Cosa Nostra. Anche per lui, a palazzo Madama, tanta comprensione, tanta solidarietà, tante affettuose pacche sulle spalle. Con i big del suo partito che lo definirono: «Un perseguitato politico». Ultimo, in ordine di tempo, nella lista dei tre senatori all’italiana, Marcello Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia, oggi Pdl. È storia di questi giorni. Condannato per concorso esterno alla mafia, a nove e sette anni di reclusione. Per carità di Dio: lo sappiamo benissimo che su Cuffaro e Dell’Utri la Cassazione deve ancora dire la sua. Ma, nell’immediato, il catalogo è quello che vi abbiamo appena descritto. I tre sono seduti su poltroncine di velluto rosso. E se ne stanno sereni al loro posto. Tirano le fila di quel che resta delle loro correnti. In grande o in piccolo, fanno politica. Il terzetto è ben distribuito fra commissioni senatoriali dai nomi altisonanti. A modo loro, dirigono il Paese. Se necessario, vanno in televisione, fanno dichiarazioni alla stampa. Adoperano le auto blu. In Italia, un’opportunità non si nega a nessuno. O, per dirla con un adagio che si perde nella notte dei tempi: «Cane non mangia cane».
da controlacrisi.org

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